ALBA
La
scossa che seguì le gettò addosso uno dei cartoni. Vecchie foto,
libri e altre cianfrusaglie la ricoprirono completamente dalla testa
ai piedi. Alba trattenne a stento un grido. Agitò le braccia e si
liberò degli oggetti come se il loro solo contatto gli provocasse
dolore. Il suo respiro diventò sempre più pesante, aveva bisogno di
aria pulita, di fuggire via dalla presenza del ragno. Alzò lo
sguardo; dov'era? Si guardò intorno con ansia, schiacciandosi il
pugno contro le labbra. Il capitano della nave giaceva poco distante,
tramortito prima dalla caduta e infine schiacciato da un anonimo
album di foto. Aveva
le zampe raggomitolate sul busto e adesso che
aveva smesso di muoversi, di incutere timore, quella piccola e
indifesa creatura smosse qualcosa nel suo cuore. Improvvisamente si
ritrovò a provare per lui della pena. Indossava un bianco tutù
poiché, prima dell'arrivo della tempesta, Alba si stava preparando
al saggio di danza classica. Un rumore di spari la riportò alla
realtà. Era lei adesso il capitano della nave. "Barra a
tribordo" sussurrò. Non sapeva cosa significasse quel comando,
l'aveva solo sentito dire in uno di quei film che guardava sempre suo
padre. Qualcun
altro come lei urlò un comando in una lingua straniera ma era
lontano, in strada. Sembrava molto arrabbiato. Alba scostò le
cianfrusaglie e poggiò la schiena contro il muro, abbracciandosi le
gambe e infilando la testa fra esse. Strinse forte sulle orecchie e i
suoni esterni diventarono più cupi e distanti. Forse se riusciva a
non sentirli più poteva cambiare le cose. "Sono
più forti di noi" ricordò. Era stato suo fratello maggiore a
dirlo. "Vinceranno loro" quindi era quello il prezzo della
sconfitta? Una buia e polverosa cantina? Allora non biasimava per
niente i vincitori. Una
volta le era capitato di vincere un premio al campo estivo. Lei lo
aveva condiviso con tutti gli altri. Non le era piaciuto lo sguardo
di chi stava sotto il podio, tutto pieno zeppo d'invidia e odio.
Concluse quindi che nemmeno vincere le piaceva. Dunque cosa bisognava
fare? Forse semplicemente condividere sia la cantina buia che il
podio con tutti. Provò
a dormire ma ogni volta che socchiudeva le palpebre, un'esplosione
lontana la faceva sobbalzare. Aveva paura, aveva tantissima paura.
Allora cominciò a piangere ma in silenzio, come le aveva ordinato
suo padre. Si sentiva debole, incapace di dominare i propri
sentimenti. Piangeva anche per quel ragno, forse perfino i suoi
genitori gli avevano detto di non uscire da lì e di attendere la
fine delle scosse. [...] "Non
uscire senza di noi" erano state le ultime raccomandazioni di
suo padre. Eppure Alba non riusciva più a resistere. Afferrò la
foto ingiallita di sua madre e si avvicinò alla porta. Ne lambì la
maniglia di ferro con delicatezza, sollevandosi sulle punte, e tirò
verso il basso. Il legno scricchiolò in modo sinistro, una fioca
luce offuscata dalla polvere s'introdusse di traverso nello
scantinato. Un
fuoco bruciava poco più avanti tra le pareti distrutte e il mobilio
irriconoscibile, alimentato dai dipinti del suo zio preferito. Restò
a osservarlo per un attimo, la mano ancora serrata sulla maniglia. La
sua casa era ormai solo un ricordo e l'unica parte ancora salva era
la sua nave. Tutt'intorno regnava la desolazione, la distruzione. Alba
calò l'ancora e decise di avanzare nonostante il cuore le battesse a
mille. Avanzò tra vetri rotti, mattoni distrutti, fogli di carta che
si libravano nell'aria, caricatori vuoti e travi spezzate. Quello
dove si trovava ora doveva essere il giardino. Le piante che sua
madre adorava erano diventate nere come il carbone. Un pezzo di
altalena era finito sull'asfalto e giaceva a pochi metri dal corpo di
un uomo. La ragazzina si avvicinò a esso e lo guardò con un misto
di confusa paura e insana quiete. Non respirava né si muoveva.
Allora sollevò la foto di sua madre e coprì alla vista il volto
distorto del cadavere, sostituendolo con quello sorridente di lei. Camminò
ancora. Ogni volta che incontrava una persona morta, copriva il suo
volto con l'immagine della madre. La tempesta era stata davvero
forte, pensò. Tutti quei marinai annegati, tutte quelle navi
distrutte. Dei corvi gracchiarono lontano, delle pareti pericolanti
crollarono sollevando nubi di polvere. Alba spostava la foto di sua
madre sul volto di ognuno e lo fece per un tempo indefinito, quasi
come si trattasse di un gioco. Raggiunse persino il centro della
città e fu in quel luogo che la fantasia non riuscì più a oscurare
la cruda realtà. Accadde
che quando spostò la foto dal volto di un corpo, questo non cambiò.
Era identico a quello di sua madre, aveva persino lo stesso colore
dei capelli e lo stesso sorriso. "Sono
più forti di noi, vinceranno loro" Alba sollevò più e più
volte la foto nella speranza di vedere quel volto mutare in un'altra
persona. Ricordò
della guerra, ricordò quello che le persone più forti di lei le
facevano a scuola. Ricordò il colore del sangue, il tocco della
disperazione. Allora capì. Non la ragione della guerra, quella non
importava. Capì che le persone dovevano essere deboli come lei,
indifese, prive del desiderio della vittoria. Dovevano avere paura,
abbandonare il coraggio, essere dei bambini. Nessun debole vuole
prevalere, nessun debole desidera vincere. Il fine non giustifica un
bel niente, decise Alba, perché il risultato cambia in base al mezzo
che si usa per raggiungerlo. Alba
si voltò dal lato opposto e camminò a ritroso, operando nel
medesimo modo. Questa volta però ogni faccia, contagiata forse dalla
foto, le sorrideva. Sollevava la foto su di essa e quando la
riabbassava, da disperato il loro volto s'increspava in un
confortante sorriso. Raggiunto
il ripostiglio, la bambina si chiuse la porta di legno dietro le
spalle e riordinò il cartone caduto. Una volta completato il lavoro,
lo ripose sugli altri e tirò un sospiro di sollievo. Si riaccomodò
con le spalle sul muro, carezzò l'immagine di sua madre e tirò
l'ancora. Adesso che la tempesta era passata poteva riprendere il suo
lungo viaggio. Infine
si addormentò. Probabilmente per sempre.
Antonio Polosa
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